Il tennis è musica di Adriano Panatta

51UGefzVLxL._SY445_QL70_Panatta cerca di replicare la magia di Open – la “autobiografia” (in realtà raccontata a voce e poi scritta dalla penna di un Pulitzer) di Andre Agassi – affidando ad un giornalista le proprie memorie del circuito e dei suoi protagonisti a partire dal proprio ingresso nel mondo del tennis (che avvenne nello stesso anno della apertura ai professionisti dei tornei dello Slam).

Per ogni anno, dal 1968 in poi, Panatta sceglie un protagonista del tennis maschile o femminile (già questa una bella novità) e nel raccontare per ciascuno di essi i propri ricordi, le caratteristiche, i talenti, le vicende, gli epiloghi, i drammi e gli incredibili successi, aiuta a costruire una storia del tennis e della sua evoluzione.

Per una che ha seguito appassionatamente il tennis per una ventina d’anni e ancora oggi segue saltuariamente le vicende dei suoi protagonisti, è stato emozionante e appassionante ritrovare campioni del passato e del presente.

Non è perfetto, ma lo consiglio.

Quattro palle su cinque.

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Tutto Sommato (Qualcosa mi ricordo) di Gigi Proietti

1390233320173Tutto_sommato_qualcosa_mi_ricordoCompleta la trilogia delle autobiografie lette in questo periodo quella di Gigi Proietti.

Mi ero scordata che Proietti prima di fare (di Essere) il Maresciallo Rocca, fosse un attore di teatro. E *che* teatro. L’avanguardia, Carmelo Bene. I greci, Shakespeare, Brecht. Il primo a riempire i teatri da duemila persone con uno spettacolo da tre ore solo sul palco (A me gli occhi, please), quello che portò il teatro dentro Fantastico, quello che bucava lo schermo in tv con uno sguardo, il movimento del corpo, la voce. Doppiatore, musicista, attore. Poi regista, direttore di teatri, insomma: un uomo dai molteplici talenti.

Ancora oggi accompagnato dalla stessa svedese di cui si era innamorato 40 anni fa e con cui ha fatto due figlie, racconta la storia di una famiglia poverissima, due genitori arrivati a Roma dalle campagne Umbre per cercare lavoro. La lotta per migliorare se stessi, per migliorare la vita dei figli. La scoperta del teatro insieme ad altre centomila passioni. Incaponirsi per fare tutto al meglio, ripetere cento volte i movimenti o le battute per modulare l’effetto, impadronirsi della tecnica, per poi scordarla mettendola al servizio del testo e dello spettacolo. Passare dall’essere un trombone antipatico che non si concede agli spettacoli leggeri, al fare la tv generalista.

La storia di un uomo che ride dei propri errori pigliandosi per il culo, che non smette di studiare e mettersi alla prova. Non smette di essere curioso, di imparare.

Mi ha fatto venir voglia di andare a vedere gli spettacoli al Globe (c’è ancora il Globe a Roma, sì?). Mi ha fatto venire voglia di tornare a teatro.

Bello. Quattro palle abbondanti su cinque.

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Lucky Man (Un uomo fortunato) di Michael J. Fox

copLetto sempre perché impallinata con l’idea delle autobiografie, l’ho scelta perché ne avevo sentito parlare bene.

Anche lui, come Sting, parte da lontano: la famiglia, le origini. Il sentirsi e l’essere riconosciuto fin da piccolo come lo stravagante in seno alla famiglia di un militare in carriera, inquadrato, preciso, senza grilli per la testa.

Scoprire passioni (la musica, la recitazione). Poi il trasferimento dal natio Canada a Hollywood appena diciottenne, e la scoperta di poter fare soldi grazie a quello che fino ad allora aveva considerato uno svantaggio, perché a causa della propria altezza sotto la media può essere assunto per interpretare ruoli da adolescente pur essendo maggiorenne, e quindi consentire alle produzioni cinematografiche di evitare le ovvie limitazioni e restrizioni del lavorare coi minori.

Le botte di culo, l’essere al posto giusto nel momento giusto. Il talento, certo. L’incontro con quella che diventa sua moglie. La scoperta dei primi sintomi del Parkinson. La lotta lunga anni per nascondere la malattia (prima di tutti a se stesso, e poi – ferocemente – agli altri). L’accettazione. Il farne prima qualcosa con cui convivere, poi qualcosa per cui combattere. Anche questa, come già Broken Music, è molto agiografica, ma è anche molto scorrevole e a tratti divertente.

Mi è piaciuta, anche se complessivamente un filo meno di quella di Sting. Anche perché ti permette attraverso i suoi racconti di scoprire dettagli su una malattia nota molto meno di quanto non sia diffusa.

Comunque quattro palle su cinque.

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Broken music di Sting

arton63635Letto perché ho deciso di leggere un po’ di autobiografie. Tra le altre ho scelto quella di Sting perché è stato il mio idolo musicale dell’adolescenza: l’ho scoperto dodicenne, ascoltando l’LP contenente Roxanne e l’ho seguito fedele e assorta a lungo.

L’autobiografia ripercorre la sua nascita, la famiglia, le radici saldamente affondate nell’Inghilterra del Nord, in una cittadina vicina a Newcastle dove la quasi totalità delle attività era legata ai cantieri navali. Echi della sua infanzia e adolescenza erano già state convogliate nel (bellissimo) album The Soul Cages e sono state riprese anche nell’ultimo album di inediti, The Last Ship, che è poi una serie di canzoni per un musical da lui scritto e che parla della storia di un cantiere navale.

Ancora ben lontano dalle ville nel Chianti-shire, Sting racconta della povertà, della propria famiglia, della passione per la musica inseguita come una sorta di vaga predestinazione, ma a cui assegnare nel frattempo un ruolo marginale, e per questo coltivata sempre di pari passo con l’impegno a costruirsi una exit strategy da “impiegato delle poste” o simili con lo stipendio assicurato, che lo porterà prima a diplomarsi e poi a studiare per diventare maestro nelle scuole elementari. In parallelo, i primi gruppi, i primi concerti, l’incontro con la prima moglie, quello con Copeland che gli propone di fondare i Police, e poi finalmente con quella che poi diventa la seconda, amatissima moglie, Trudie Styler. La narrazione di fatto si chiude alle porte dell’enorme successo mondiale che ha travolto i Police con l’incisione di Roxanne.

Insospettabilmente, il tutto è profondamente intessuto di malinconia, di riflessioni sui genitori, su quello che gli hanno lasciato come eredità spirituale, e di quello che lui lascia ai propri figli. Lo stile è scorrevole, molto rarefatto e a tratti epico (certamente in alcune fasi si respira un’aria fin troppo agiografica), ma lo si legge più come un romanzo di formazione che come un elenco di vicende a cui si debba accreditare chissà quale fedeltà storica. Molta introspezione psicologica e relativamente pochi aneddoti, insomma. Pochissimi lustrini e luci della ribalta, molte nebbie in albe solitarie. A me è piaciuto tanto, avrei voluto che durasse di più, che raccontasse ancora, e più a lungo. Scrive gran bene (ma questo lo sapevamo già). Bello.

Quattro palle su cinque.

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