Lucky Man (Un uomo fortunato) di Michael J. Fox

copLetto sempre perché impallinata con l’idea delle autobiografie, l’ho scelta perché ne avevo sentito parlare bene.

Anche lui, come Sting, parte da lontano: la famiglia, le origini. Il sentirsi e l’essere riconosciuto fin da piccolo come lo stravagante in seno alla famiglia di un militare in carriera, inquadrato, preciso, senza grilli per la testa.

Scoprire passioni (la musica, la recitazione). Poi il trasferimento dal natio Canada a Hollywood appena diciottenne, e la scoperta di poter fare soldi grazie a quello che fino ad allora aveva considerato uno svantaggio, perché a causa della propria altezza sotto la media può essere assunto per interpretare ruoli da adolescente pur essendo maggiorenne, e quindi consentire alle produzioni cinematografiche di evitare le ovvie limitazioni e restrizioni del lavorare coi minori.

Le botte di culo, l’essere al posto giusto nel momento giusto. Il talento, certo. L’incontro con quella che diventa sua moglie. La scoperta dei primi sintomi del Parkinson. La lotta lunga anni per nascondere la malattia (prima di tutti a se stesso, e poi – ferocemente – agli altri). L’accettazione. Il farne prima qualcosa con cui convivere, poi qualcosa per cui combattere. Anche questa, come già Broken Music, è molto agiografica, ma è anche molto scorrevole e a tratti divertente.

Mi è piaciuta, anche se complessivamente un filo meno di quella di Sting. Anche perché ti permette attraverso i suoi racconti di scoprire dettagli su una malattia nota molto meno di quanto non sia diffusa.

Comunque quattro palle su cinque.

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