Non potete capire la sorpresa quando ho scoperto che il Lincoln del titolo è proprio Lincoln, quello vero, insomma, Abramo.
Cioè, in realtà è suo figlio ad essere nel Bardo. Che poi uno pensa che il bardo sia il cantore celtico con la cetra, tipo Assuracentourix di Asterix (e resta un po’ lì a chiedersi che ci faccia uno nel bardo) e invece no: qui Bardo è il termine tibetano che rappresenta lo “stato intermedio” buddhista tra la morte e la reincarnazione, quando l’anima non è collegata a un corpo.
Questo è un libro bizzarro assai, con momenti di una bellezza assoluta e altri di una noia letale. Vi si seguono le vicende di alcuni spiriti che vagano in un ordinario cimitero statunitense, defunti senza volerlo ammettere, incastrati tra vita e morte da desideri e bisogni che non possono più riguardarli, ma da cui non riescono a distaccarsi e – in questa spirale di follia, frustrazione e rifiuto della realtà – assistono stupiti, sempre più inconsapevoli e arrabbiati all’abbrutimento delle proprie anime e al disgregamento dei propri corpi, ripetendo ossessivamente racconti e azioni, disturbati di tanto in tanto dalle visite dei vivi o dall’arrivo di nuovi “malati” come loro.
Quando però ad arrivare saranno un ragazzino deposto in una cripta che aspetta suo padre e le visite notturne di un uomo alto e scuro che si vocifera essere il presidente, tutto l’assembramento di anime non potrà restare inerte.
Una lettura la merita, anche se a me non ha fatto impazzire: forse sconta il fatto che nelle intenzioni dell’autore originariamente nasce come racconto e diventa romanzo in un secondo momento.
Tre palle e mezzo su quattro.
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