Q di Luther Blissett

31iAd01JldL._BO1,204,203,200_La lettura di questo libro ha avuto una gestazione molto travagliata: mi venne regalato una ventina di anni fa dalla sorella dell’ex storico, dicendomi che era il suo libro preferito e una lettrice vorace come me lo avrebbe polverizzato in un attimo (hint: ci sono poche cose che mi rendano pesante e faticosa la lettura di un libro quanto l’accompagnarlo dalle parole “figurati per te sarà una passeggiata”).

Una decina di anni dopo me lo chiese in prestito un collega, che lo voleva leggere ma non voleva spenderci soldi. Me lo rese dicendomi “beh se non l’hai letto, dovresti” e ci provai, arenandomi però tipo balenottera spiaggiata dopo una cinquantina di pagine.

Forse non avevo capito la tecnica narrativa: i capitoli non seguono un ordine cronologico rigido, spesso il narratore cambia e peraltro – essendo Luther Blissett lo pseudonimo di un collettivo di scrittori – nei vari capitoli si intravedono anche le diverse “penne” che si sono alternate nella scrittura. Questo inizialmente mi ha dato un senso di forte distonia, di confusione. A ripensarci ora è un po’ il disorientamento che ho provato all’inizio di Infinite Jest, che – pur essendo diversissimo per ambientazione, trama e stile narrativo – ti chiede la stessa pazienza nell’entrare nella trama, dovendoti semplicemente affidare a quel che accade e rimandando al cuore del romanzo la sensazione di aver iniziato a comprenderne le dinamiche sotterranee.

L’ho infine ripreso, su consiglio di una persona cara, che me ne ha parlato in termini così appassionati da spingermi ad andarlo a tirare fuori dalla libreria polverosa dove aveva sonnecchiato tanto a lungo, ed essendo finalmente giunto il suo momento, l’ho poi finito in pochi giorni.

Mi sono concessa con pazienza al dipanarsi degli eventi, a quel metodico avanti e indietro della trama che schizza momenti sparsi nel tempo, apparentemente slegati tra loro. Solo nel volgersi del finale tutti i fili si tirano e riesci finalmente a vedere il quadro nel suo complesso, come se fino ad allora avessi seguito la tessitura di un arazzo dal verso e solo nelle battute finali venisse voltato a rivelarti il disegno finale.

Non posso dire che sia perfetto, ma è certamente un libro bellissimo: molto intenso, non banale, e con una capacità superiore alla media di tratteggiare i personaggi, che siano i protagonisti o i comprimari, con una attenzione al dettaglio concentrato in poche pagine che mi ha fatto spesso pensare alla madre di Cecilia de I Promessi sposi.

L’ambientazione storica (prima metà del ‘500 nell’Europa dilaniata dalle spinte eretiche che porteranno al protestantesimo) potrebbe far pensare ad un noioso polpettone, invece è sì un bellissimo affresco storico, ma prevale la storia degli individui che vi si muovono, inseguendo le proprie passioni e desideri, che siano la lotta alla corruzione della Chiesa, l’accumulo di denaro dalle nuove tratte e tecniche commerciali, il potere temporale su uomini e territori, l’amore o la felicità.

Quattro  palle e mezzo su cinque.

Lo potete trovare qui.

Infinite Jest di David Foster Wallace

71FLyXgl7ELGiustamente la recensione di Infinite Jest non poteva che essere una Infinite Recensione. Chiedo anticipatamente perdono.

Si tratta di un libro che ho letto principalmente perché alcune delle persone che stimo di più e a cui voglio più bene lo considerano un caposaldo della loro formazione (mi riferisco su tutti al Sir, a UDS e – ovviamente – a Madame Psichosys) e sentivo di aver bisogno di capire di loro qualcosa di più attraverso qualcosa di che ritengono così importante. E credo di averlo fatto.

La prima cosa che mi ha colpita è stata che è un libro che ha lo stesso impatto – su di te che lo leggi – della vita. Nel senso che non introduce niente, non ti spiega niente, non ti dice chi sta parlando, a che punto sei della storia, chi la sta raccontando, chi cazzo sono i personaggi. Ti sbatte in faccia le cose, le parole e i fatti così: come se fossi saltato su un treno in corsa. Il che, se vogliamo, è indice di una straordinaria capacità del narratore di riprodurre voci, situazioni, episodi differenti: alcuni momenti sono in forma di dialogo, altri di flusso di coscienza (senza quasi punteggiatura), altri raccontati in prima persona, altri con un narratore onnisciente, altri sono flashback (ma non lo capisci subito: un po’ come se stessi sognando e solo ad un certo punto ti accorgi che è un sogno, perché ci sei dentro e non vedi niente di strano finché non noti qualche incongruenza). La voce piena del narratore praticamente la trovi solo nelle note (ma sulle note faccio un commento a parte, dopo).

La mia sensazione è stata per tutto il libro di essere stata mandata in colonia. Non conoscevo nessuno, anche se dopo un po’ le persone attorno a me diventavano familiari. Non sapevo quanto ci sarei rimasta. Non capivo bene cosa succedesse (perché non c’era nessuno di amico a cui chiedere chiarimenti) ma seguivo un po’ la folla per vedere che succedeva, cercando di non restare troppo indietro. Quando la colonia è finita e son tornata a casa mi sono accorta che a qualcuno mi ero affezionata davvero, che qualcuno mi spiace di non averlo conosciuto meglio, qualcuno non mi mancherà per niente. Ma penso di aver imparato qualcosa: ho avuto un sacco di occasioni e di tempo per pensare a me stessa e, se devo fare un bilancio finale, sono contenta di esserci stata ed è una esperienza che non consiglierei a tutti, ma penso che a molti potrebbe dare qualcosa. Detto questo, la fregatura – caro DFW – è che sì, ok, sei bravissimo e sì, ok, la vita è così: che nessuno te la spiega e sei tu che ti devi fare il mazzo per capire cosa succede e chi hai di fronte. Però ecco: cche ddue ccoglioni. Perché tu lettore ci metti non meno di duecento pagine a capire non dico cosa stia succedendo, ma appena una minima infarinatura della trama, e devi arrivare almeno a pagina 900 per iniziare ad annodare un po’ i fili delle storie. Novecento pagine, raga. C’è gente che si è rotta le palle per molto meno.

Morale: Infinite Jest è come la vita, non facile, non omogeneo, non tutto bello, solo che la vita la devi vivere per forza, mentre un libro lo puoi mollare quando vuoi. Quindi: se tu lettore non lo vuoi leggere è un po’ un peccato, ma diciamo che ti resta un sacco di tempo libero per leggere parecchio altro. Se tu lettore lo cominci e poi lo molli, io lo capisco e un po’ ti do anche ragione eh. Però se tu lettore lo cominci e lo finisci, allora vieni qui e fatti abbracciare, fratello: è piaciuto moltissimo anche a te, vero? Lo sapevo. Vieni, prendiamoci insieme una tazza di the e mangiamo un biscottino.

La seconda cosa che mi ha colpita è che – così come la vita – c’è davvero di tutto. E non sai se un personaggio è uno dei protagonisti o un comprimario, non sai se una cosa che succede è importante o te la sembrerà mentre la leggi e poi scopri che no, non sai se invece un dettaglio apparentemente marginale riciccerà fuori a distanza di un saaaacco di tempo e scoprirai che *cavolo, se era importante* e non te ne eri accorto (cosa che, vi assicuro, vi frega di brutto perché ti fa venire voglia di ricominciare il libro e poi ricominciarlo di nuovo, per scoprire una cosa diversa ogni volta, per capire un collegamento in più ad ogni rilettura). La cosa bella di questo impianto narrativo è che finisci per farti sorprendere da pagine come non te lo aspettavi. La cosa brutta è che magari è passato tanto di quel tempo da quando hai letto quella cosa *importantissima* che manco te la ricordi più (per questo – anche – ci tenevo a non metterci troppo a finirlo: per non “dimenticare” quello che leggevo).

La terza cosa che mi ha colpita è che non ho mai letto niente – e sottolineo niente – che parli del dolore con l’intensità, la sincerità e il senso di resa e comprensione con cui ne parla questo libro. Penso che nessuno possa passare indenne attraverso certe pagine. Cito – per chi lo ha letto – i primi episodi che mi vengono in mente: povero Tony, la Ragazza Più Bella Di Tutti i Tempi nel bagno alla festa, il piccolo Matty e il suo Papi, Raquel Welch, “ecco”.

La quarta cosa che mi ha colpita è stata che il vero problema di questo libro non è che non ci sia una vera e propria trama: è che un romanzo – di fatto – non può non averne una. E tutto quello che è stato scritto dall’autore “per metterci una trama” costituisce le parti davvero noiose (il presidente Gentle, Marathe e Steeply sulla collina, gli afr). È come se avesse avuto delle cose da dire e quelle gli sono uscite così dirette così sincere, così perfette, che le leggi come se fossero boccate d’aria tra una agonia e l’altra, mentre l’agonia  – paradossalmente – è la trama che lega quelle cose.

Commento sulle note: l’ho letto su Kindle. Credo che su carta abbia più o meno 1250 pagine. Considerate che il libro “finisce” all’87%, il resto sono note. E detta così uno si immagina che quindi siano 400 pagine di annotazioni tipo libro di testo di scuola. Invece – porcoggiuda – fanno parte integrante del libro. Nella fattispecie nelle note ci finiscono essenzialmente tre tipi di incisi: 1) dettagli tecnici sulle tipologie di farmaci citati nel testo (David, vie’ un po’ qqua, fatti puntinare) 2) digressioni su cose che avrebbe potuto tranquillamente mettere nel testo, perché sono vere e proprie parti integranti della trama, corredate anch’esse da note (!!!), ma che secondo me l’editor gli ha fatto mettere in fondo, in modo che avessero un corpo più piccolo e le pagine complessive fossero meno (non v’è altra spiegazione) 3) commenti del narratore. Il quale interviene “per dire la sua” come se stessimo guardando i contenuti speciali di un dvd col commento del regista. Morale: non sperate di poter saltare le note, perché tanto fanno parte del testo, e se le saltate capirete ancora meno.

Rispetto ai commenti che ho letto in giro sul libro mi sento di dire che 1) sì, penso sia normale non riuscire a leggerlo al primo tentativo: è sicuramente un libro che puoi scegliere di iniziare, ma deve essere il *tuo* momento giusto per finirlo 2) non penso che DFW scriva in modo eccezionale, o almeno non sempre. Ha passaggi eccelsi, momenti di puro godimento, scorrevolissimi. Ma ha anche momenti di noia feroce, di dover tornare indietro a rileggere: momenti in cui non vieni risucchiato nella storia, ma “ti guardi da fuori” mentre leggi. Per me – ma è un giudizio che vale per me e relativamente a questo momento, poi magari leggo altro o lo rileggo e resto fulminata sulla via di Damasco – uno scrittore veramente bravo è bravo sempre. Non ti annoia mai.

*SPOILER* *NON LEGGETE SE VOLETE LEGGERE IL LIBRO * *MORIREMO TUTTI* *ANDATEWYA* *SPOILER**SPOILER**SPOILER**SPOILER* *SPOILER**SPOILER**SPOILER**SPOILER**SPOILER**SPOILER**SPOILER**SPOILER**SPOILER**SPOILER* *SPOILER**SPOILER**SPOILER**SPOILER**SPOILER**SPOILER**SPOILER**SPOILER**SPOILER* *SPOILER**SPOILER**SPOILER**SPOILER**SPOILER**SPOILER*

A me sta cosa che finisce, ma non finisce mi ha scocciato, e non poco. A me piacciono i libri che finiscono. Quelli dove sai che cosa succede alla gente, soprattutto a quella che hai seguito per un sacco di tempo. Alla fine Matty come sta? e Lenz, cosa ha trovato nelle borse delle cinesi? Gatley si salva? Vedrà mai il viso di Joelle? Joelle è davvero sfregiata o no? Loro due staranno insieme? Orin che fine fa? Trovano l’intrattenimento? La cicogna matta riuscirà a parlare con Hal? Era lui che inchiodava le cose al soffitto? Perché va a parlare con Gatley? Perché Hal all’inizio parla strano e nessuno lo capisce? Riesce ad andare all’università? Come gli vanno i test? E Pemulis? Come sta la faccia di Ortho Stice? eccetera. Lo odio. Odio tutti. Che qualcuno scriva il seguito o faccio una strage. (Poi magari mi sono distratta mentre lo leggevo e certe cose le ha spiegate ma non me ne sono accorta, tanto per dire alle volte pure mentre scrivo io uh forse ho ancora l’acqua sul fuoco per il the).

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*ADESSO POTETE ANCHE LEGGERE IL SEGUITO*

Un’altra osservazione al volo: è un libro che parla dello sbagliare. Della fatica che si fa a capire i motivi per cui stai sbagliando e – poi – a capire che quei motivi non devono diventare le tue giustificazioni per comportarti di merda con gli altri o smettere di vivere. Perché la stessa cosa o anche peggio può essere capitata ad un’altra persona, che però non ne ha fatto un alibi dietro cui nascondersi. Non riesco a ricordare nemmeno un personaggio che non abbia fatto almeno una cazzata irresponsabile. Come ciascuno di noi, nel proprio piccolo. Poi, così come tutto Infinite Jest appare come un affresco distorto e grottesco della vita, e così come la realtà viene presentata alterata, esasperata, contemporanea, ma allo stesso tempo iperbolica – come se stessimo guardando un presente alternativo attraverso una lente deformante – così tutti i personaggi e le storie sono sempre allo stesso tempo credibili e incredibili. Non riesci mai a capire del tutto se quello che ti viene presentato sia la realtà o una allucinazione. O un sogno. Nessuno al mondo è normale, se lo guardi abbastanza da vicino, e Infinite Jest è un libro che guarda tutti a distanza millimetrica e disvela l’anormalità di chiunque lo legga, ma senza dare un giudizio. Forse per questo quelli che lo finiscono si guardano l’un l’altro con l’affetto dei sopravvissuti ad un olocausto: non credo sia tanto per l’aver finito un mattone di svariate pagine, quanto perché è un libro che ti sa scavare dentro, può cambiare il tuo modo di guardare le cose e te stesso, e ti aiuta a perdonarti.

Veniamo alla domanda che mi fanno tutti: Infinite Jest è un capolavoro o no?

Mettiamola così: è un fottuto capolavoro anche con le parti pallose, ma allo stesso tempo non è un capolavoro assoluto, pur avendo delle parti assolutamente straordinarie. Non credo che DFW volesse “scrivere un capolavoro”, credo che volesse “scrivere” e basta: un libro che non ti dicesse *dove* guardare e *come*, ma che ti desse della roba da guardare. Poi sta a te vedere se hai voglia di guardare, se hai la concentrazione, l’approccio, la capacità (perché no?) di vedere quello che c’è e farne qualcosa. E’ lo stesso motivo per cui molte storie che ti racconta “non finiscono”. Ti porta fino ad un certo punto e poi te la devi cavare da solo. Piace? Non piace? è soggettivo. Con questo non voglio dire che se non ti è piaciuto è perché non lo hai capito e sei stupido: le cose appassionano o no anche a seconda del momento in cui le approcci. Magari non è il tuo libro, magari non è il momento giusto. Però concedetevi di non fare l’errore inverso, vale a dire sostenere che coloro che lo hanno finito e a cui è piaciuto lo dicano solo per darsi un tono.

Ora, nel the gradite latte e zucchero o una fettina di limone?

Cinque palle su cinque.

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