Non è un vero e proprio romanzo unitario, né una raccolta di racconti autonomi l’uno dall’altro: si tratta più di una sequenza di storie ambientate principalmente nell’America di provincia e legate tra loro in qualche modo dalla presenza della signora Olive Kitteridge. Vi si narrano ad esempio alcuni momenti importanti nelle vite di suo marito, del figlio, delle amiche, degli alunni che l’hanno avuta a scuola come insegnante, di lei stessa.
A volte Olive compare solo sullo sfondo, sotto forma di una frase detta a scuola e ricordata in un momento decisivo da una ragazza in crisi, che le dà lo spunto per dare una svolta alla propria vita. Mi ha ricordato, in questo, le “epifanie” di Gente di Dublino di Joyce: momenti che dovrebbero essere insignificanti, ma per la persona che li vive assumono rilevanza decisiva.
Il tutto concorre a comporre, grazie ai vari punti di vista dei protagonisti delle storie narrate, un quadro per elementi sovrapposti e a volte discordanti di Olive stessa, ma anche della vita della cittadina in cui si muove.
L’impressione conclusiva è che Olive, nella sua normalità e con tutti i suoi difetti e i suoi errori, abbia influito in modo determinate sulla vita di chi aveva intorno, ma lo ha fatto in quel modo normale e quotidiano con cui ciascuno di noi – a volte anche senza rendercene conto, o in modo diametralmente opposto a quanto avessimo voluto – influisce sulla vita di chiunque altro. Gesti apparentemente banali e casuali possono influenzare in modi che non possiamo nemmeno comprendere le scelte e la vita di chi incrociamo per un secondo o una vita intera. E, nello stesso modo, gesti o parole che per noi esprimono amore possono essere armi per coloro cui sono rivolte.
C’è un modo per non sbagliare? No, si può soltanto vivere per tutto il tempo che c’è concesso di vivere e si può amare con tutto l’amore che ci è concesso di donare.
Quattro palle su cinque.
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