Stoner di John Williams

image_bookQuando l’ho finito non riuscivo a dormire: madonna madonna.

Quando uno arriva ad un libro che tutti ti dicono “bellissimo” possono succedere due cose: che leggi “Va dove ti porta il cuore” e vorresti uccidere tutti quelli che te lo hanno consigliato o almeno inizi a guardarli male, con sospetto, come se ad un tratto avessero un’aria diversa, più triste, più stupida. Oppure può succedere che sei in tram che vai ad una serata con una amica e non hai niente da fare e inizi qualche pagina sul telefono, senza pretese, tanto per passare il tempo, di un libro che tutti quelli che stimi ti hanno detto “leggilo”. E ti accorgi che hai già letto due capitoli, che non sei più a Milano in una serata in cui stranamente non piove, ma stai attraversando i viali alberati di una Università americana di inizio XX secolo e non sei più tu e non pensi più a quello che ti stava capitando, perché quello che ti sta capitando, adesso, è lì nel libro. Ed è una vita normale, banale, un po’ triste ma con momenti felici, in cui fai degli errori ma provi a tirare fuori il meglio con quello che hai, e quando qualcosa di meraviglioso ti succede lasci che accada perché non sai come fermarlo, e se è necessario lo lasci andare via, leggero come la neve che cade e copre tutto. Come in The Dead di Joyce. Tutta la brutta letteratura si assomiglia e ha il sapore della noia. Tutta la bella letteratura è unica e allo stesso tempo ti ricorda altre cose bellissime che hai letto: Yates, Roth, Joyce. Così come Revolutionary Road ti lascia lo stomaco straziato come una foresta travolta da un tornado, Stoner te lo lascia come un campo arato dalla vita. La vita come è, come deve essere, come può essere se riesci a viverla come se avesse un significato, ma senza volerle dare a tutti i costi un senso. Un libro che ti fruga dentro. Bellissimo. Consigliatissimo.

Cinque palle su cinque.

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