Il 26 aprile 1986 ha inizio il disastro nucleare alla centrale di Chernobyl.
Trentadue anni dopo un gruppo di amici decide di fare un viaggio per visitare quei luoghi. Per vedere cosa è rimasto, cosa è scomparso. Per fare i conti con la messa in scena allestita a beneficio dei turisti come loro ma anche con la verità che cresce e fa capolino, come le piante che crescono apparentemente indifferenti tra i ruderi di una città svuotata in uno schioccar di dita.
La cronaca dei pochi giorni trascorsi fuori e dentro Chernobyl è alternata al racconto dei ricordi dell’autore bambino, con il padre poliziotto messo di guardia a Seveso dopo il disastro della diossina.
Un parallelismo tra due incidenti con magnitudo molto diversa, ma che aiutano a dare un contesto personale e intimo: amo sempre molto l’alternanza tra piccolo ed enorme, tra personale e universale (come negli Appunti per un naufragio di Davide Enia che alterna il racconto dei naufragi a Lampedusa con la storia del proprio zio).
Scritto in modo splendido, era una storia da raccontare e l’autore è riuscito a farlo bene, ma ci sono tre cose che lo avrebbero reso migliore:
1) ci avrei voluto anche vedere le foto scattate durante il viaggio e che vengono lungamente raccontate.
2) è troppo breve.
3) manca il “dopo”: si racconta di come è stato decidere di andare, cosa ne hanno detto gli altri, cosa si sono detti i membri del gruppo, cosa è successo durante il viaggio. E dopo? Cosa si è portato a casa l’autore? E gli altri membri del gruppo? E le loro famiglie?Gli altri?
Cosa resta, dopo un viaggio così? Forse resta semplicemente il bisogno di scriverci su e di farlo leggere agli altri.
Merita assolutamente la lettura: quattro palle abbondanti su cinque.
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